Festival Fgci 1976 – Quando Ravenna vide giovani nuovi

Nella storia degli anni settanta – turbolenta e drammatica per alcuni versi, esaltante e stimolante per altri – c’è un episodio legato alla mia città, Ravenna.

Nel 1976 venne organizzato nella zona della Darsena il primo, rimasto poi unico, Festival Nazionale della FGCI, la Federazione Giovanile Comunista, all’epoca fortissima, guidata da un dirigente rampante come Massimo D’Alema e in espansione proporzionale ai crescenti successi del Partito, arrivato in quel periodo a superare il 30% dei voti a livello nazionale e ad attestarsi intorno al 50% nella mia città di Ravenna e in tutta l’Emilia Romagna, con punte del 70% in località più piccole, vere e proprie “stalingrado”. In Emilia Romagna il PCI controllava le amministrazioni locali, influiva sulla vita economica dando sponda politica al fortissimo movimento cooperativo, era propulsore della vita sociale, aggregativa e culturale.

Lo dimostra la diffusione capillare (città per città, paesino per paesino, quartiere per quartiere) dei Festival dell’Unità, con il loro apporto di aggregazione, musica, letteratura, arte, spettacolo emergente e alternativo, ma largamente conosciuto e apprezzato.

Il cartellone del Festival FGCI fu roboante: sul palco Dalla, Guccini, i Nomadi, Bennato, Finardi, Iannacci, più i film di Pasolini, Bertolucci…

La struttura è messa in piedi (con la solita festosa passione, tipica dei comunisti romagnoli), dai volontari del partito: studenti della FGCI ma anche operai, pensionati, casalinghe e persino artigiani e commercianti “di area”.  Spazi per spettacoli e dibattiti alla Darsena e un campeggio a Lido Adriano per 5000 ospiti dove si teneva ogni sera una partecipatissima assemblea. E servizi autobus per trasportare i giovani fra i due luoghi.

Gli anni settanta non sono caratterizzati solo da feroci contrapposizioni politiche e da lotte sindacali. E’ diffuso anche un movimento giovanile che si ispira a valori poeticamente anticapitalisti: ereditano il “peace and love” di fine anni sessanta, bighellonano, fanno girare liberamente la droga (si consideri che in quegli anni i giovani morivano come mosche per gli eccessi di eroina), contestano tutto della società borghese, non lavorano, vivono di espedienti spesso illeciti, come la pratica dell’esproprio proletario, ovvero prelevare merci dai negozi o consumare nei ristoranti senza pagare. A casa mia, in loro “onore”, sento per la prima volta il termine “fancazzisti”. Il regista Nanni Moretti li immortala in un suo film, dove una di loro, alla domanda “Cosa fai nella vita?” risponde “Faccio cose, vedo gente, mi muovo, leggo, ascolto molta musica…”. Lo stesso fa Carlo Verdone, con il personaggio che renderà iconica l’espressione trasognata “un sacco bbello!”.

Un folto gruppo di questi giovani raggiunge Ravenna da tutta Italia per il Festival. La tensione è immediata. Pretendono di vedere gli spettacoli senza pagare il contributo (duemila lire) che l’efficace macchina organizzativa comunista aveva previsto. Non piacciono granché, vengono dall’Italia inquieta e dinamica delle periferie metropolitane che la sonnecchiosa Ravenna non conosceva. Sono giovani tanto quanto quelli della FGCI, ma l’Emilia Romagna sta coniugando i sogni rivoluzionari di falce e martello con il pragmatico impegno per una crescita economica e sociale anche all’interno della società borghese, anche all’interno del predominio culturale e militare americano, anche in coesistenza con la religione, anche con una moderata ambizione al denaro e ai consumi.

La classe operaia del PCI romagnolo è “organica”: lavora, cresce, fa studiare i figli, viaggia, modella ancora gli stili di vita e un confuso sogno rivoluzionario al disciplinato rigore dei padri resistenti.

Insomma: i giovani capelloni alternativi che arrivano a Ravenna nel 1976 non somigliano ai giovani figli di operai e contadini della FGCI. E allora incaricano i “padri” (operai e soprattutto portuali) di “andare a dare un’occhiata”. Lo faranno con modi bruschi e sbrigativi.

Ci sono alcuni scontri, causati anche dall’atteggiamento disinvolto e impreparato di alcuni poliziotti. Poca roba per gli standard di quell’epoca. Mio padre ha 37 anni, non vi partecipa direttamente (l’animo francescano non glielo avrebbe permesso) ma torna a casa destabilizzato: ha appena visto i “compagni” scontrarsi con ragazzi pieni di sogni, che volevano cambiare il mondo, come forse lo era stato lui fino a poco prima. Cialtroni, ma in fondo pacifici. Per la prima volta lo scontro non è con i fascisti, con il governo o con i padroni, ma con dei poveracci. Il segretario D’Alema e il padre resistente Arrigo Bulow Boldrini coniano l’espressione “ordine democratico” per definire i limiti della protesta e delle manifestazioni (si sintetizza in: le vetrine non si spaccano, i conti si pagano, la polizia non si tocca).

Uno giovane si vanta dicendo “Sai, io vengo da Umbria Jazz…” (altro ritrovo del caotico magma giovanile rivoluzionario tenutosi qualche giorno prima) beccandosi la dissacrante risposta di mio padre “Ah, dal tono che ti davi mi sembrava che venissi dal Vietnam…”.

Mio padre si rende conto improvvisamente di non essere più, in quanto operaio, “il più povero” (perché percepisce l’esistenza di un ceto incapace o impossibilitato a cogliere le opportunità di crescita offerte dagli anni sessanta alla classe operaia romagnola, fenomeno che si evidenzierà più avanti con le migrazioni straniere); nè di essere più “giovane” (ovvero dalla parte più movimentista e arrabbiata delle folle politicizzate) nè di essere nemmeno più tanto rivoluzionario, ma anzi vagamente contento che la società borghese – in cambio di una vita di fatica, puzza, pericoli e stanchezza in fabbrica – le duemila lire da dare ai compagni che organizzavano gli spettacoli al Festival e magari altre duemila da prestare a chi era più in difficoltà, gliele avesse fatte orgogliosamente guadagnare.

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