Orto intervista Orto

Ho raccolto alcune delle più frequenti domande che mi sono state poste durante le ormai molte presentazioni del mio libro. Le ripropongo con le relative risposte

 

Come nasce l’idea del libro?

Il libro è la storia di un amore. Di un amore in senso classico, fra un ragazzo di paese del Centro Italia e una ragazza di una città del Nord, mio padre e mia madre, e dei “frutti” che generò: io e mia sorella. Poi c’è l’amore per un territorio, la Romagna, considerato dai suddetti ragazzi e dalle loro famiglie come una terra dove gli abitanti avevano trovato formule avanzate di organizzazione della vita, capaci di garantire a tutti un benessere morale e materiale. E c’è l’amore per una grande idea di pace, giustizia, lavoro, emancipazione e libertà, destinata, nei sogni di quegli anni, a trasformare in breve tempo il mondo. Un ideale che avvolge tutta questa storia sin dai suoi primissimi momenti.

A che tipo di lettori è destinato il libro?

Il libro è destinato a tutti gli appassionati del recupero storico di un decennio, gli Anni Settanta, che è biologicamente vicino, ma antropologicamente lontanissimo dal tempo che viviamo. Non è un libro “di parte”, perché pur parlando di una militanza convinta ne evidenzia gli elementi di forza (che hanno formato la mia personalità e quella di molti altri italiani della mia e di altre generazioni), ma anche i limiti a volte imbarazzanti, a volte grotteschi. Che si sia vissuta dall’interno, o da avversari, o da una posizione neutrale, tutti hanno avuto modo di confrontarsi (a scuola, sul lavoro, in famiglia) con l’ideologia comunista, sicuramente il pensiero politico più complesso e caratterizzante espresso dalla Storia.

Ti definiresti “comunista”?

Mi piace definirmi “figlio di ex comunisti”.

Cosa c’è da salvare e cosa c’è da condannare dell’ideologia comunista?

Bisogna chiarirsi innanzitutto sulla parola. La famiglia di umani che si sono proclamati “comunisti” è molto vasta e va dai sovietici, ai cinesi, ai nordcoreani, ai cubani… ed è stata sia potere che opposizione. Berlusconi apostrofava ogni suo nemico (giornalisti, giudici, industriali concorrenti, politici moderati) come “comunista”. Certi sportivi o persone di spettacolo, per un certo loro spirito alternativo e ribelle, vengono considerati “comunisti”. Molti terroristi si sono proclamati “comunisti”.

Io parlo dell’esperienza che conosco, quella del Partito Comunista Italiano nel Dopoguerra. Un’esperienza caratterizzata dalla ricerca dell’emancipazione della classe lavoratrice dal punto di vista economico, ma anche culturale e morale. Della difesa della dignità delle donne; della distribuzione più equa del potere e della ricchezza; della pace come stella polare della politica estera; della solidarietà fra popoli; dell’attenzione per le diversità e per le minoranze. Una classe dirigente nobile, colta, onesta, capace e profondamente innamorata della libertà e della democrazia, nonostante le bandiere sventolate in apparente antitesi…

Nessun difetto quindi?

Come no?! Innanzitutto l’inaccettabile scelta di campo internazionale dell’alleanza ideologica con i sovietici e con alcune delle più negative esperienze politiche internazionali. Ma anche l’aver spesso perso di vista la vera ambizione del proprio popolo, sostituita con un’idealizzazione teorica troppo sofisticata, elaborata a tavolino da alcune avanguardie. Quando questa distanza fra popolo “vero” e popolo “idealizzato” è emersa più nitidamente (negli anni Ottanta e Novanta, quelli di forte aumento dei consumi della classe lavoratrice) il PCI è arrivato al capolinea. Gli ideologi erano andati troppo avanti, sopravvalutando esageratamente il concetto di “popolo”.

Una sconfitta?

Apparentemente sì, ma è una grande sconfitta che nasconde tante piccole vittorie. Molte conquiste date per acquisite nell’Italia di oggi, anche da avversari politici, si devono al fondamentale impegno del PCI. Si pensi al divorzio, alle pari opportunità, alla democrazia assembleare nei luoghi di lavoro, ai diritti di sciopero, all’evoluzione del mondo della scuola, dell’arte, ecc.

Cosa c’entra in questa storia un personaggio come Baglioni?

Potrebbe sembrare un capriccio aver inserito il mio artista preferito senza che ce ne fosse un’apparente necessità. Invece il capitolo su Baglioni mi è servito per almeno tre motivi: il primo per illustrare ulteriormente come il Partito orientasse (o tentasse di orientare) ogni comportamento della vita, persino la scelta della musica leggera di cui fruire che, abitudine del tempo, era divisa in due da uno steccato piuttosto alto e rigido (con Baglioni a collocarsi sommariamente nella parte “sbagliata”); il secondo è legato alla canzone “Le Ragazze dell’Est” che portò la sua voce libera e ascoltata da tutti (anche dai comunisti) ad accendere poeticamente i riflettori su una realtà dei Paesi comunisti molto distante da come si era sognato che fosse; il terzo è legato alla modernità perché – abbandonate le sirene della ricerca di una rivoluzione globale dell’economia, del lavoro e della gestione delle ricchezze – mi sono convinto che “rivoluzione” sia un concetto che si possa tradurre in piccolo, nelle comunità familiari, nei rapporti di coppia, fra colleghi, con la natura e l’ambiente, con i figli, con i vecchi, nel volontariato, in una società sportiva o in un circolo culturale. E alla ricerca di un equilibrio emotivo personale che consenta all’individuo di “dare” qualcosa alle rivoluzioni, senza porsi necessariamente solo in condizione di “ricevere” da esse. In questo senso le parole e l’esempio di Baglioni sono molto più importanti e “politici” di quello che potrebbe sembrare ad un ascoltatore superficiale.

L’immagine dei “comunisti che mangiano i bambini” risale alla campagna elettorale del 1948. Ritieni che se il fronte delle sinistre (comunisti più socialisti) avesse vinto quelle elezioni l’Italia avrebbe avuto lo sviluppo economico e sociale arretrato che era proprio dell’Europa dell’Est?

Credo che il Paese affidato ai comunisti (sia dirigenti che militanti) che ho conosciuto io non si sarebbe sicuramente espresso nella modalità dispotica propria dei regimi dell’Europa dell’Est.

Recentemente il Parlamento Europeo si è espresso equiparando i crimini del nazismo a quelli del comunismo. Cosa ne pensi?

E’ stato un errore. Il nazismo (come il fascismo) è un’ideologia criminale che ha un’inevitabile applicazione criminale. Non può esistere un nazismo esente da crimini, perché sono connessi nella natura di quell’idea. Il comunismo, invece, è un’idea politica che non implica crimini, anche se va detto che le applicazioni conosciute di comunismo sono state spesso, o quasi sempre, criminali. I danni morali ed intellettuali creati da questi due assolutismi possono essere assimilati dal punto di vista quantitativo, ma la distinzione di partenza va sottolineata. Ho maturato la convinzione che il comunismo sia un’opzione politica valida per brevissimi periodi, connotati da grande unità di un popolo a fronte di un’emergenza (di solito una guerra o una dittatura da rovesciare). Ma, alla lunga, la varietà di percorsi fatalmente disegnati dagli Uomini costringono ad abbandonare un meccanismo politico che li consideri forzatamente tutti uguali.

Cosa rappresenta il disegno di copertina?

La copertina è realizzata dall’amico grafico Ferrino Fanti su mia ideazione. Il bambino dell’immagine sono io; la macchia rossa sulla destra (ad est…) è quella forza incombente che alcuni vedevano come una minaccia e altri come una promessa di felicità. Ho preteso che lo sguardo del bambino non fosse né spaventato né ammirato, ma semplicemente incuriosito. Nel retro di copertina c’è la foto del piccolo Marco (7 anni) che partecipa alla protesta tenutasi a Ravenna (come in ogni altra città italiana) dopo il vile attentato fascista di Brescia, che colpi una manifestazione politica di sinistra facendo molti morti. Quella foto fu anche la copertina di una rivista sindacale dell’epoca.

Potrebbe esistere, oggi, un Partito Comunista in Italia?

No. Oppure potrebbe esistere, ma ottenere pochissimi voti, perché sono ormai inesistenti le convinzioni di base degli italiani che possano renderlo forte. Nessuno è più favorevole a statalizzare le grandi proprietà industriali; nessuno sente affinità mondiale con altre esperienze che si proclamano “comuniste” (quasi tutte inquietanti e fallimentari). Inoltre la classe lavoratrice di riferimento del PCI del Dopoguerra si è “ingentilita”, sfruttando le grandi potenzialità di crescita rese disponibili, nel Novecento, anche e soprattutto grazie all’azione del Partito Comunista. Ora un operaio, un impiegato, un contadino, non sono più semplici “proletari”, ma soggetti con vite complesse, fatte di lavoro, ma anche di consumi, di hobby, di vacanze, di benessere… che li portano ad essere diventati spesso più “conservatori” (con la percezione di minaccia verso criminalità, malavita, tasse, malattie, ecc) che “progressisti”, ovvero orientati a trasformazioni profonde della società. I veri “proletari” sono in genere coloro che hanno perso tutti i “tram di crescita” del Novecento, uscendo da quel concetto di classe operaia impegnata e consapevole a cui si rivolgeva il PCI. Oppure sono gli stranieri con le nuove povertà che premono ai nostri confini, con i quali, però, lo “zoccolo duro” dell’elettorato operaio del PCI (e la sua discendenza di figli e nipoti) non ha alcuna forma di contiguità, anzi, può prefigurarsi come avversario di classe.

Come si confronterebbe l’ideologia comunista degli Anni Settanta con i moderni fenomeni di ultranazionalismo e sovranismo?

Sarebbe ovviamente e profondamente ostile. L’ideologia comunista era proiettata all’abolizione dei confini e delle identità nazionali. L’eccessiva ostentazione di simboli nazionali come la bandiera o l’inno erano considerati tipici delle destre. C’era un profondo sentimento internazionalista e terzomondista (elaborazione prevalentemente teorica, perché negli Anni Settanta di stranieri, in Italia, non ce n’erano e le notizie che venivano dal terzo mondo erano molto approssimative). Sorprende la contraddizione di coloro che oggi si proclamano fascisti e dicono “ognuno deve stare a casa propria”, dimenticando (non so se consapevolmente o no), che il fascismo italiano attaccò sistematicamente, selvaggiamente e vigliaccamente la Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, la Russia, la Francia, la Libia, la Somalia, l’Etiopia… tutti Paesi che non ci avevano fatto nulla! Alla faccia dell’ “ognuno a casa propria”!

Come si è evoluto il rapporto dei comunisti con le canzoni, il calcio, la televisione…

Il PCI portò all’estremo il tentativo di costruire un Uomo Nuovo, che prendesse le distanze da tutto quello che non fosse rivoluzionario e “comunista”. E’ chiaro che con una prospettiva così gigantesca e affascinante come quella di trasformare per sempre la società secondo regole più giuste, ogni sforzo andasse finalizzato in quella direzione. Il calcio e un certo tipo di musica (ad esempio la nascente “disco music”) o di TV disimpegnate, o l’indulgere verso la moda, l’abbigliamento, gli accessori venivano visti con sospetto, perché capaci di “rammollire” l’impeto rivoluzionario della classe operaia. Nei primi Anni Settanta il PCI espresse una posizione contraria addirittura alla TV a colori! Alla lunga il movimento comunista dovette prendere atto dei limiti di quelle posizioni così drastiche: non era più possibile “proibire” (nemmeno moralmente) il consumo di musica leggera, l’ostentazione di simboli nazionali, la televisione di intrattenimento, la passione per il calcio, l’ambizione all’accumulo di denaro (che però tuttora ritengo incongrua e prodromo di infelicità) anche perché l’orizzonte del sogno rivoluzionario, sembrava allontanarsi mano a mano che sembrava di potervicisi avvicinare. E’ su questi temi – più ancora che su quelli internazionali – si è giocato il tramonto del PCI, incapace di interpretare, con i vecchi metodi, le nuove ambizioni del proprio elettorato.

Si può considerare il PCI un partito “ecologista”?

Non in senso stretto, perché il PCI, come tutti i partiti della Prima Repubblica (ad eccezione dei Verdi, prosperati comunque solo negli Anni Ottanta, quindi dopo il tempo che tratto nel mio libro) era un partito a trazione fortemente industriale e operaista, che mirava ad un aumento della produzione industriale e dei consumi a disposizione della classe operaia. Sarebbe stato troppo difficile e antipopolare porsi in opposizione a quel trend di crescita che aveva affascinato e inebriato gli italiani con nuove e impensabili possibilità di acquisto. Tuttavia fu Berlinguer a denunciare (inascoltato) i limiti del modello occidentale di sviluppo e fu l’elettorato comunista, in armonia con quello cattolico, a ispirare il proprio modello di vita alla moderazione (alla “continenza”, se vogliamo usare un termine caro ai teologi). Inoltre gli amministratori locali comunisti furono all’avanguardia nell’attenzione ai fenomeni dell’inquinamento, delle sofisticazioni, dell’abuso di risorse, degli sprechi, ecc. Temi che sono tuttora alla base di una coscienza ecologica.

Sulla intensità del sentimento politico dei comunisti si è fatto parecchio umorismo…

Sì, soprattutto negli ultimi anni di vita del Partito, quando un impegno politico così intenso era diventato “fuori moda”, superato nell’interesse popolare dalle multiformi tentazioni di consumo della società moderna (vacanze, hobby, ecc). Si irrideva la solidità e la compattezza del mondo comunista. Una compattezza che era ragione di forza: una classe operaia frammentata avrebbe indebolito la possibilità di operai e contadini di incidere sulla vita del Paese. Al giorno d’oggi è dominante il concetto (nobilissimo, per carità) di “libertà”: libertà di pensarla diversamente, di cambiare idea, di esprimere ogni opinione contrastante, di rimettere in discussione la propria scelta di voto ad ogni elezione… Un tempo, invece, la “libertà” faceva un passo indietro nei confronti di un’altra bellissima parola, “unità”, in cui le posizioni individuali o minoritarie si piegavano al pensiero centralizzato, detto “linea”, di un gruppo di potere autorevole e riconosciuto. Non a caso, credo, il quotidiano comunista si chiamava proprio “L’Unità”. La barzelletta più esplicativa è quella che riporto nel libro: “Papà è vero che gli asini volano?” “Certo che no! Che sciocchezza è questa???” “Ma c’è scritto sull’Unità!” “Ah… beh… no… beh, insomma… svolazzano”.

 

 

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