Mi si consenta

Mi sono interessato di politica sin da ragazzino e fino ad una quindicina di anni fa. Ho avuto i miei preferiti e quelli che ho considerato avversari. In Italia e all’Estero.

Recentemente mi sono risolto di capire che ci vogliono più conoscenze di quelle che ho e che non basta una vita per avere opinioni definite. Ed ho lasciato perdere la materia, come forse avrete notato dalla totale assenza di mie valutazioni in merito su questo mio spazio Facebook, se si escludono le prese di posizione per le elezioni comunali, dove la conoscenza dei percorsi umani e professionali dei candidati che poi ho votato mi inducevano a schierarmi, almeno a parole.

Adesso il mio concetto di “politica” parte dal basso. Ovvero è necessario che le persone conoscano e applichino nella loro vita quotidiana le virtù che chiederanno poi ai politici che dovranno rappresentarli. Nella vita quotidiana significa sul lavoro, in famiglia, nelle amicizie, nelle associazioni, nel traffico stradale, nello sport praticato o seguito da tifosi e in ogni altra relazione sociale

Oltre a quelle “ovvie” (non rubare, non usare violenza) ci sono quelle apparentemente meno importanti: non dire bugie; non tradire la parola data; rispettare i deboli; avere tolleranza per le minoranze e le diversità; utilizzare il dialogo e non la forza per risolvere le controversie; rispettare il proprio corpo e quello degli altri; non sprecare denaro, cibo, acqua, energia; cercare di non sentirsi sempre stocazzo e convincersi che ci sono anche gli altri; rispettare la natura, gli animali, gli equilibri biologici; impegnarsi per valorizzare il più possibile lo spicchio di economia (lavoro) che ci è stato dato in sorte; studiare o quantomeno rispettare le conoscenze e le professionalità di chi dimostra di averle.

Se ognuno facesse questo lavoro su se stesso la politica ne trarrebbe giovamento, diventando il riflesso di un popolo migliore, pronto a cacciare via chi non lo rappresentasse nel modo adeguato.

Per “migliorare” possono aiutare una buona alimentazione, una buona attività fisica, un buon sesso, buone letture, buon cinema, buona tv, buone arti popolari come la musica o uno sport fruito con saggezza. Cosa sia “buono” e cosa no è difficile dirsi. Però, insomma, a volte qualche parametro oggettivo o comunque largamente condiviso può esistere. Io ho scelto con cura i miei maestri.

Negli ultimi tempi il “potere” (almeno in Italia) è definitivamente uscito dalle Istituzioni che, sulla carta, lo dovrebbero ospitare. Il Parlamento e il Governo, nel Novecento, lo detennero a lungo, pur dovendosi rapportare a poteri esterni (Vaticano, Mafia, Nato, ecc) con i quali, comunque, erano affini e simpatizzanti o, nei casi peggiori, addirittura complici. Da qualche tempo le decisioni importanti vengono totalmente prese altrove e ad occupare i finti ruoli di potere ci sono persone di evidentissima impreparazione, a volta scadenti in modo macchiettistico. I veri poteri non hanno nessun interesse di sapere chi occupa il finto potere e così avallano una processione di figuranti buoni per far chiacchierare la gente al bar, ma esautorati di ogni capacità decisionale. L’esito delle elezioni politiche è sopravvalutato. La differenza se “vince” uno o “vince” l’altro è irrilevante, tant’è vero che, a votare, non ci vado nemmeno più. I veri cambiamenti me li aspetto dai popoli, non dalla politica. Anche se, deludendomi i primi, finisce conseguentemente a deludermi la seconda.

I più attenti mi diranno: ma non sei tu che dicevi che i “poteri forti” non esistono? Sì, ero io. Voglio essere preciso: i poteri forti esistono solo nella misura in cui soddisfano le esigenze prevalenti dei loro popoli. Altrimenti il loro destino è il solito: un calcio nel culo e via. E spazio ad un “potere forte” sostitutivo. Gli esempi sono infiniti. I “poteri forti” sono schiavi dei popoli e il loro “potere” è limitato dal compiacimento del popolo, altrimenti si dissolve come neve al sole.

Il passaggio del “potere” all’esterno dalle Istituzioni è avvenuto negli Anni Novanta, quando la gente ha cominciato a percepire i meccanismi rappresentativi democratici nati nel Dopoguerra come barbosi, lenti, inutili, corruttibili. Un imprenditore milanese, animato da una spregiudicata ambizione personale e dalla necessità di difendersi dall’onda di Tangentopoli che lo stava sommergendo, interpretò il fenomeno con velocità superiore a chiunque altro. Abbreviò tutti i tempi di fenomeni già in fieri. Per lui si inventò il termine “sdoganare” applicato ad una politica che sembrava destinata a rimanere pittoresca minoranza (la Lega e i partiti post-fascisti). Gli “scrupoli” della Prima Repubblica potevano essere seppelliti con una risata. Tutto doveva essere nuovo, colorato, facile, intuitivo. Il passato andava cancellato, perché era patrimonio di gente barbosa, dei “comunisti” (nome generico in cui confluiva qualsiasi suo avversario). Contava solo l’oggi. Il “prodotto” da offrire non era più il buongoverno, ma la comunicazione, la confezione, l’illusione.

Evitava di parlare al cervello delle persone, sede della logica, ma anche delle preoccupazioni, dello stress, degli scrupoli, dei pudori. Fu insuperabile nel parlare al cuore, alla pancia, al portafoglio, agli organi genitali delle persone con una schiettezza che fino a quel momento era considerata inopportuna o vietata.

Diventò l’idolo di un’imprenditoria che si era “rotta i coglioni” di pagare le tasse, di farsi amministrare male, di dover rapportarsi a popolazioni straniere che non si accontentavano del ruolo di schiavitù del lavoro o del sesso nel quale preferivano circoscriverli. Si erano persino “rotti i coglioni” di non poter dire che si erano rotti i coglioni. Il turpiloquio, proprio in quegli anni, venne a sua volta sdoganato, anche se il Presidente se ne tenne brillantemente fuori, come dimostrano raffinate interiezioni che lo resero famoso come “mi consenta” e “cribbio”. Piacque agli sfigati, perché regalava loro una speranza. Piacque ai giovani, perché rimuoveva il coperchio paternalistico che la politica aveva avuto nei loro confronti fino a quel momento.

Accelerò la liberazione delle persone dai lacci della morale sessuale: si sposò, divorziò, si risposò, ri-divorziò, tradì, si riconciliò, andò con le minorenni, con le maggiorenni, con le figlie, con le nipoti, con le fotomodelle, demolendo progressivamente il discredito che questi comportamenti avrebbero determinato fino a poco tempo prima. “Mbè? – diceva la gente – è libero di fare ciò che vuole” (sottintendendo: “magari potessi farlo anch’io”). Su questa materia penso che, se la sua morale fu squallida, lo fosse altrettanto, all’opposto, quella dei leader della Prima Repubblica, con le loro tristi apparenze monogamiche e la fedeltà da sfigati ultracattolici o ultramoralisti.

Ridefinì il rapporto col denaro. Che andava desiderato, inseguito e ostentato con orgoglio. La sobrietà era roba da comunisti sfigati. La vita definiva i vincenti (quelli con tanti soldi, lasciando perdere le modalità con le quali erano stati accumulati, perché i controlli e le regole erano barbose pratiche da comunisti) e i perdenti, che però dovevano mantenere la speranza di poter rovesciare il tavolo in ogni momento, di far valere un talento nascosto ed essere rapidamente promossi fra chi ha ed è. Com’era successo a lui. Insultando gli avversari durante una campagna elettorale urlò “eravate, siete e rimarrete dei poveri comunisti!” Dove “poveri” era la parola chiave dell’accusa. Di “comunisti” peraltro, ne erano rimasti pochi nel campo avverso, perché li aveva sedotti e presi con sè tutti: da Liguori a Mughini, da Brandirali a Ombretta Colli, a leader stranieri suoi amici, a tutti i rivoluzionari da salotto in preda al crollo delle loro illusioni di gioventù.

Credo che questa ideologia monetaria (tutto si può vendere e comprare: un corpo, un avvocato, un giudice, un politico, un sindaco) abbia fatto i danni più gravi agli italiani.

Accelerò l’apertura (già in atto) della televisione all’ultra libertà. Diede spazio libero (che prima non c’era) a giornalisti, attori, comici, scelti fra i più bravi e raramente limitati nella loro opera. A parole sembra una cosa positiva, ma segnò la strada per un anestetico rincoglionimento diffuso di chi poteva, con mille canali e mille stimoli, “nutrirsi” solo di ciò che piaceva: solo di calcio, solo di telenovelas, solo di uno spicchio di conoscenza, solo di volgarità. Mentre prima la TV generalista, con i suoi pochi canali, costringeva a confronti periodici con materie ostili e con la crescita che esse potevano offrire anche ai più “pigri”.

Nel calcio fece prodigi. Capì tutto. Ebbe intuizioni clamorose. Mise la sua immensa quantità di denaro al servizio di idee rivoluzionarie e originali. Gli uomini forgiati dai suoi progetti sportivi si distinguono tuttora per un imprinting di classe, correttezza, rettitudine. Veramente poco da obiettare all’aspetto sportivo della sua parabola.

Aveva sprazzi (solo sprazzi) di umorismo irresistibile, anche se per ridere occorreva dimenticare per qualche istante il pensiero contorto e inaccettabile che stava alla base di quella battuta o di quella barzelletta. Molte volte l’operazione non mi riusciva e quell’umorismo passava subito da brillante a patetico.

E’ stato il mio ultimo avversario. Poi ho chiuso con l’avversione per i politici (ho fatto un’eccezione per i protagonisti della vicenda virale, ma quelli sono stati dei criminali, non dei politici, e comunque il giudizio si limita solo al delirio legato a questa vicenda).

I politici si illudono di contare qualcosa, ma sono succubi di fenomeni planetari e antropologici che non possono fermare e nemmeno indirizzare.

C’è più politica in un’assemblea di condominio, in una spesa al supermercato, in un impegno nel volontariato di quanta ce ne sia in cento consigli dei ministri.

Gli avrei risparmiato (come lo risparmierei ad ogni anziano) il decadimento psicofisico degli ultimi anni che lo fece diventare una delle sue stesse barzellette. Però, Cavaliere, ci consenta, prima o poi tocca a tutti.

 

 

 

 

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